"Se non ora, quando?" Appello alle donne per una mobilitazione il 13 febbraio
Iniziativa promossa da molte donne del mondo della cultura, della scienza, del teatro
Se non ora quando? In Italia la maggioranza delle donne lavora fuori o dentro casa, crea ricchezza, cerca un lavoro (e una su due non ci riesce), studia, si sacrifica per affermarsi nella professione che si è scelta, si prende cura delle relazioni affettive e familiari, occupandosi di figli, mariti, genitori anziani.
Tante sono impegnate nella vita pubblica, in tutti i partiti, nei sindacati, nelle imprese, nelle associazioni e nel volontariato allo scopo di rendere più civile, ricca ed accogliente la società in cui vivono. Hanno considerazione e rispetto di sé, della libertà e della dignità femminili ottenute con il contributo di tante generazioni di donne che – va ricordato nel 150esimo dell’unità d’Italia – hanno costruito la nazione democratica.
Questa ricca e varia esperienza di vita è cancellata dalla ripetuta, indecente, ostentata rappresentazione delle donne come nudo oggetto di scambio sessuale, offerta da giornali, televisioni, pubblicità. E ciò non è più tollerabile.
Una cultura diffusa propone alle giovani generazioni di raggiungere mete scintillanti e facili guadagni offrendo bellezza ed intelligenza al potente di turno, disposto a sua volta a scambiarle con risorse e ruoli pubblici. Questa mentalità e i comportamenti che ne derivano stanno inquinando la convivenza sociale e l’immagine in cui dovrebbe rispecchiarsi la coscienza civile, etica e religiosa della nazione.
Così, senza rendercene conto, abbiamo superato la soglia della decenza. Il modello di relazione tra donne e uomini, ostentato da una delle massime cariche dello Stato, incide profondamente negli stili di vita e nella cultura nazionale, legittimando comportamenti lesivi della dignità delle donne e delle istituzioni.
Chi vuole continuare a tacere, sostenere, giustificare, ridurre a vicende private il presente stato di cose, lo faccia assumendosene la pesante responsabilità, anche di fronte alla comunità internazionale. Noi chiediamo a tutte le donne, senza alcuna distinzione, di difendere il valore della loro, della nostra dignità e diciamo agli uomini: se non ora, quando? È il tempo di dimostrare amicizia verso le donne.
Anche a Senigallia scendiamo in piazza Roma domenica 13 febbraio dalle ore 16 alle ore 18: leggeremo testimonianze, testi letterari e teatrali, canzoni per mostrare il diverso valore e la vera bellezza delle donne. Chiediamo a tutte e a tutti di partecipare e sottoscrivere il testo dell’appello.
dal Coordinamento delle donne di Senigallia “Se non ora, quando?”
La prima domanda è dunque dove erano tante di quelle che sfileranno domani, in questi venti anni. La maggior parte di loro proviene da quella cultura che è il lascito tardivo di femminismo e Sessantotto: la cultura del «Io sono mia», che predicava la piena autonomia di una donna finalmente liberata da condizionamenti del passato, maschilisti o “ peggio” religiosi. La ricordiamo l’ebbrezza di questa liberazione, trent’anni fa: libera, si proclamava quella generazione di ventenni, di fare politica, di studiare e lavorare; libere nel rifiuto orgoglioso di essere “donne oggetto”; libere dal matrimonio come destino obbligato; libere, grazie alla pillola e all’aborto legale, dall’antico giogo di maternità non volute.
La seconda domanda allora è che cosa è stato ereditato, di queste vere o presunte libertà, dalle figlie. Qualcosa deve essersi inceppato nella trasmissione generazionale. Però quelle sono figlie nostre; cresciute davanti alla tv forse, ma educate da noi.Insomma, la prospettiva di farsi meteorine in feste di vip, o di usare la bellezza per “arrivare” in fretta non è poi così riprovata. Plagiate da vent’anni di veline? Ma le famiglie, e le madri, dov’erano? Scoprire all’improvviso che le bambine di dodici anni, nelle famiglie più abbandonate ma non solo in quelle, sognano davanti allo specchio. Ve ne accorgete oggi? Noi cattolici retrogradi eravamo dunque all’avanguardia?
Su Repubblica però una docente universitaria pone questa distinzione: «Una cosa è che uno scelga i valori del sedere, come la cosa migliore di sé e più preziosa; tutt’altra cosa è che glielo imponga un altro». Tipica declinazione di quel relativismo etico che è da anni il pensiero unico obbligatorio. Secondo il quale nulla è oggettivamente negativo; se una liberamente decide di vendersi, niente da dire. Ma allora cosa si scende in piazza a contestare domani? Non c’era forse qualcosa di primario, di oggettivo che si è buttato via insieme al resto trent’anni fa, quando si gridava «L’utero è mio e lo gestisco io»?. L’utima domanda, la più importante, è: che cosa trasmettere a una figlia, perché non sogni, sotto sotto, di incontrare Lele Mora? Basterà parlare di decenza? (strano ritrovare in bocche laiche questo vecchio termine “bigotto”). Ciò che, crediamo, scrive su un figlio l’rgoglio di non essere in vendita mai è che si senta fin dal primo giorno unico, e amato, e non nato per caso, ma dentro un destino comune e buono; che sappia che quel destino è un compito che lo lega agli altri. È la certezza dei cristiani autentici, e forse quella dei laici migliori le cui speranze, però, sembrano oggi perse o sconfitte. Senza questa certezza del valore assoluto di ognuno, non stupisce che si concepisca di vendersi e i modi poi, per donne e uomini, sono tanti. Se nessuno ti ha detto che tu non hai prezzo, e il tuo valore è infinito.
Ebbene sì, se io fossi una donna domenica sarei in piazza. Non per politichetta, ma per amore. E per ribellione del cuore e della mente, da credente e da persona libera. Ci sarei per dignità e senso morale. Certo non andrei per lamentare – come più di qualcuna tra le promotrici – che “è mancato il passaggio del testimone” tra le giovani e giovanissime di oggi e le femministe d’antàn. Ci sarei per dire che non m’interessa un passaggio del testimone, ma ascoltare testimonianze di verità su ciò che è accaduto nel mondo – vogliamo dire nei mondi? – delle donne italiane negli ultimi quarant’anni. Ci sarei con la speranza di ascoltare voci chiare e consapevoli e accenti nuovi e autocritici su una battaglia per la parità uomo-donna che ha dato frutti importanti e dolci, ma anche agri, e che soprattutto – per vederlo basta avere gli occhi – ha paradossalmente prodotto e radicato nella testa di tanta gente d’Italia anche una vasta, sventata e triste “pari opportunità” dell’involgarimento, della libertà declinata sino allo sciupìo di sé. Il peggio dei sogni al maschile trasformato in realtà.
Potrei chiamarla una gratuita perdita di senso e una logica dei sensi a pagamento, anche se temo di sembrare un disco incantato. L’abbiamo scritto così tante volte su queste pagine che ne ho perso il conto. Però c’è tanta di quella verità in questa iperbole amara, in questo lancinante interrogativo morale che insegue e sconfigge pensieri deboli e orgogliose professioni di relativismo, che vale la pena di rifarlo. E allora lascio le parole in pagina, perché – se fossi una donna – domenica sarei in piazza, in quella piazza, per ribellarmi non solo e non tanto al reato ancora da provare in giudizio di un uomo potente e, come lui stesso dice di sé, «qualche volta peccatore», ma alla réclame dell’escortismo che è certa ed è provata e che sta appestando i giornali e ci appesta la vita. Ci sarei per protestare contro la cartellonistica cialtrona che infesta le vie delle nostre città e contro la televisione sconciata e scosciata del velinismo e dei reality guardoni.
Ora che nel reality purtroppo ci siamo tutti, ora che (tra “nominati” e salvati, tra giudici e votanti) la partita è tutt’altro che virtuale, se fossi donna, andrei in piazza fra altre donne per chiedermi – e chiedere ad alta voce – che cosa abbiamo insegnato a quelle tante nostre figlie pronte a considerare la vendita di sé un investimento come un altro – perché un errore terribile c’è stato se siamo arrivati sino a qui, e non è solo di queste ragazze belle e confuse, determinate e senza bussola, figlie di madri liberate o fatte sole, di padri assenti o espulsi, di famiglie provvisorie e risolte, come un problema d’aritmetica o un lampeggiante desiderio. Ma questo, qui accanto, se lo chiede già Marina Corradi. E, come sempre, Marina lo fa trovando accenti coinvolgenti e giusti. Quindi mi fermo qui. Con le mie domande d’uomo e come di donna. Perché la parità che ho imparato è stare assieme e accanto, con uguale altezza e diverso ruolo. Trovando e ritrovando, come in famiglia, il coraggio di guardare e dire il problema vero. E oggi, davanti a un’annunciata piazza al femminile che spero s’arrovelli e non s’arroventi, non ho ragione o torto da dare, ma torti su cui fermarmi e ragioni da indicare.
Marco Tarquinio
Avvenire del 12 febbraio 2011
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