"Di me cosa ne sai": Mendez, Apolloni e Jalongo al Cinema Gabbiano di Senigallia
Madrina, scrittore e regista del film in sala per un dibattito sulla cultura cinematografica e televisiva in Italia
“Di me cosa ne sai” comincia come un’inchiesta su uno dei tanti misteri degli anni Settanta. Ma a differenza di altri misteri italiani senza soluzione, qui non ci sono cadaveri, né stragi. C’è però l’improvviso, rapidissimo declino di un cinema che per trent’anni ha dominato le scene internazionali. Com’è potuto succedere? Chi o che cosa ha ucciso il grande cinema italiano? Questa domanda ci guida in un percorso ricco di testimonianze preziose e di riflessioni originali, da Mario Monicelli a Wim Wenders, da Dino De Laurentiis ad Andreotti, Ken Loach e molti registi italiani.
Ma “Di me cosa ne sai” è soprattutto un racconto in forma di diario, brevi sprazzi dalla vita quotidiana di alcuni registi impegnati in una lotta a volte drammatica a volte comica per difendere il proprio lavoro e i propri film, che spesso è anche una lotta per la sopravvivenza personale. Un viaggio in Italiaattraverso sale cinematografiche, esercenti innamorati del proprio mestiere, multiplex, laboratori digitali di Cinecittà e vecchi proiezionisti girovaghi… un viaggio che è anche un ritratto amoroso del cinema e del nostro paese.
Dopo un paio di sequenze tratte da "La marcia trionfale" di Marco Bellocchio e "Salò o le 120 giornate di Sodoma" di Pier Paolo Pasolini, abbiamo Liliana Cavani alla ricerca di una copia perduta del suo "Al di là del bene e del male". Comincia qui "l’inchiesta su un grande mistero italiano" condotta dal regista Valerio Jalongo, impegnato a svelare le motivazioni che, dopo gli Anni Settanta, hanno portato il nostro miglior cinema a un rapido declino e alla fuga dei nostri maggiori produttori. Uno di essi, Dino De Laurentiis, tra un intervento di Sandro Baldoni e uno di Maurizio Nichetti, racconta del fatto che i Comunisti, a suo tempo, facevano finta di aiutarli, mentre la Democrazia cristiana li rigettava direttamente, ma anche di come Giulio Andreotti fosse l’unico politico che aveva intuito l’importanza dell’esportazione dei nostri film.
E sono soltanto alcuni dei "cinematografari" che l’autore di "Messaggi quasi segreti" e "Sulla mia pelle" ha interpellato sull’argomento, da un grottescamente disperato Felice Farina a Wim Wenders, passando per Franco Ferrini, Peter Del Monte, Mario Monicelli e Martin Donovan, il quale afferma che "Il conformista" di Bernardo Bertolucci gli cambiò la vita.
Senza contare diversi giornalisti, lo sceneggiatore Andrea Purgatori e Daniele Luchetti, impegnato a mostrare in che modo i programmi di condivisione audiovisiva rappresentino un vero e proprio pericolo per l’industria delle immagini in movimento. Tutti impegnati a prendere parte a un interessante e coraggioso viaggio di celluloide attraverso esercenti, ragazzini teledipendenti, proiezionisti girovaghi e multisale-centri commerciali che hanno finito per decretare la fine della sala unica.
Per un ritratto pessimista che, ricordando anche la condanna al rogo di "Ultimo tango a Parigi" e il furto del negativo del citato "Salò" quando ancora era in lavorazione, approda all’arrivo delle tv commerciali di Silvio Berlusconi, negli Anni Ottanta, in seguito al quale la produzione di film è decisamente calata, fino a permettere a Maria De Filippi di girare "Amici" nello stesso teatro in cui, in tempi decisamente migliori, Federico Fellini concretizzava in pellicola le sue visioni oniriche.
“La grande tradizione europea – dice Valerio Jalongo – si fonda sul rispetto per l’arte e per la cultura come momento politico essenziale di una comunità che si riconosce, si interroga, si rinnova nel tentativo di ricostruire la complessità del mondo e della società in cui viviamo, qualità indispensabili per l’unità e la vita civile di un paese, ma questo in Italia, a partire da un certo momento non è più accaduto. Con questo film – continua Jalongo – ho cercato di raccontare una storia su cui nessuno, per trent’anni, ha voluto fare chiarezza. Credo che emerga l’immagine di un paese che ha un disperato bisogno di verità: il vuoto della grande mutazione culturale descritta da Pasolini, è aggravato da anni di una televisione dominata da un meccanismo occulto e incontrollato come l’Auditel”.
Di me cosa ne sai – è stato presentato alla 66ª Mostra del Cinema di Venezia nell’ambito delle Giornate degli Autori – ed è stato prodotto da Ameuropa International e da Cinecittà Luce che lo distribuisce anche nelle sale.
da ACEC Marche
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