Stupor Teatri
XXXVII Stagione Lirica Teatro Pergolesi Jesi
Federico di Hohenstaufen (di Svevia, chez nous) era nato in Italia (e proprio a Jesi). In lui convivevano quindi due culture. Sentì presto il fascino dell’Oriente (cresciuto nelle strade dei quartieri arabi di Palermo, di consiglieri arabi si circondò in seguito): un grande meticcio. Dodici anni fa Giancarlo Del Monaco, sovrintendente di Bonn, commissionò a Marco Tutino un’opera su Federico. Tutino propose a me di scrivere il libretto. L’opera doveva andare in scena per l’800° anniversario della nascita dell’imperatore, ma per ragioni interne al Teatro di Bonn, non ci andò. Lo dice Tutino nei suoi "Appunti": cercare di scrivere un melodramma storico ci sembrava anacronistico, volevamo creare situazioni e atmosfere. Ma la figura di Federico II è imponente e imponente è comunque la forma operistica: unite, queste imponenze potevano schiacciare le nostre intenzioni. Occorreva una chiave di straniamento strutturale. Ci sembrò di trovarla nel gioco tra "macro" e "micro", in particolare nel gioco del Teatro dei Pupi (pare esistesse già ai tempi di Federico…). Del resto, questa chiave corrispondeva all’idea che ci eravamo fatti di lui: il mondo gli sembrò un teatro. Sovrano guerriero perché i tempi lo imponevano, Federico II credeva poco nelle armi, credeva invece nella politica e nella mediazione e sapeva comprendere le ragioni del nemico. Non riconosceva però valore al cardine dell’etica cristiana, il perdono (d’altra parte, non lo praticavano nemmeno i Pontefici). Negava il perdono soprattutto ai traditori, e così fece accecare il suo gran commis, e amico, il poeta Pier delle Vigne, colpevole – sembra – di malversazioni (e Piero si uccise in un modo tra i più spaventosi). Federico riteneva il perdono una debolezza colpevole: perché rinviare a Dio un giudizio che gli uomini sono in grado di pronunciare autonomamente? Se credeva in Dio, Federico credeva nel Dio vendicativo dell’Antico Testamento – forse fu questa la ragione per cui venne chiamato "l’Anticristo". Quando venne raggiunto dalla scomunica papale, l’imperatore disse: "Per troppo tempo sono stato incudine, ora sarò martello". Abbandonò la flessibilità e la mediazione (i lutti che accompagnavano ormai la sua vita contribuirono all’inasprimento). Tutino ed io non abbiamo scritto un melodramma storico, ma questo è comunque il punto di svolta nel personaggio che abbiamo creato. Ho riletto questo libretto per l’adattamento dell’opera al Teatro Pergolesi e l’ho riletto come fosse stato scritto da un’altra persona. Bello o brutto, credo abbia una coerenza. Per quanto possa sembrare strano, la coerenza trova il suo collante nelle citazioni di autori molto diversi. Qualche esempio. Primo. Anche dodici anni fa c’erano guerre. Mi capitò in quel periodo di leggere le poesie di Joseph Roth. Alcune parlano della morte nei campi di guerra: a queste è ispirata un’"aria" di Federico ("umida nebbia / di un’alba bianca"). Secondo. La scena del Frate che vende indulgenze, tetro Dulcamara, è mutuata da un’analoga scena del "Lutero" di John Osborne. Terzo. Sembra che Federico abbia visto una sua statua abbattuta. Con opportuni aggiustamenti metrici, gli abbiamo attribuito un’immagine di Victor Hugo: "Se ci chiediamo a cosa serve un re, / un dio potrà dire: / a farvi una statua / e ospitarvi una rondine". Quarto, e più generale. Abbiamo cercato di far convivere un linguaggio che per comodità definisco "alto" con uno quotidiano, atmosfere drammatiche e atmosfere intime. Per queste ultime ci siamo rifatti al lavoro di cantautori e parolieri degli anni Settanta. Prima di allora i testi delle canzoni potevano dire "in un viale ingiallito d’autunno / tristemente m’hai detto "è finita"." Nei Settanta, in un giorno di malinconia, "proviamoci anche con Dio, / non si sa mai". Si cominciava a cantare come può capitare di parlare, si individuavano versi nel parlato quotidiano. Esempio nell’esempio, Pier Delle Vigne aveva amato la figlia di Federico, ma si innamorò di Isabella d’Inghilterra (sinceramente non ricordo se questo accadde nella "realtà" o se solo nelle nostre fantasie): Piero dice alla figlia di Federico "perdona, se puoi" – le parole che, credo, chiudono una canzone di Battisti e Mogol. Anche se cantate su note diverse, richiamano una koiné che precede l’avvento dell’era della spazzatura. Facendo questi esempi, non abbiamo inteso scandalizzare, ossia far inciampare, nessuno. Semplicemente, questo mi è sembrato di leggere in un testo scritto dodici anni fa. Alte atmosfere sono costruite con testi poetici dell’epoca di Federico e musicati da Marco Tutino.
di Giuseppe di Leva
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