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DOM o dom? Leonardo Badioli sul convegno degli avvocati a Senigallia

"Le strutture centrali sarebbero appesantite e peggiorerà il rapporto tra istituzioni e cittadini"

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Sala del Trono di Palazzo del Duca

Nelle chiese dell’âge classique DOM era un acronimo che stava per “Dio Ottimo Massimo“. Il carattere minuscolo consente oggi di leggere lo stesso acronimo come “dimensione ottima minima”, che nelle economie di scala è considerata quella più efficace e vantaggiosa.Ogni impresa umana ha una sua propria dimensione ottimale, che va considerata attentamente e non alla maniera della BCE prima e del governo Monti poi, che tagliano grosso su ministeri e province, prefetture, difesa, giustizia e forze dell’ordine. Un tratto comune di questa spending review è l’accentramento.

Mi riferisco per concretezza all‘incontro gremito di avvocati che si è tenuto recentemente in Palazzo del Duca per contrastare il progetto governativo di tagliare la “spesa improduttiva” attraverso l’eliminazione delle Preture locali (Tribunali e Giudici di pace) e, per quanto riguarda Senigallia, l’accorpamento delle loro attività interamente nel “Palazzaccio” anconetano.

Il ministro Paola Severino si ripromette notevoli risparmi da questo provvedimento in termini di costi e personale. Forse la maggior parte delle persone penserà che si tratta di un sacrificio doloroso ma necessario.

Io credo, al contrario, che si tratti di un modo sbagliato di ragionare. Una corretta ecologia della mente chiederebbe invece di controllare se non sia possibile ragionare in un modo diverso.

Una prima domanda: “Perché dovremmo ottenere economie concentrando le attività anziché distribuendole? Forse i decisori ritengono che la dimensione ottimale dei servizi giudiziari sia quella di concentrarli tutti nel capoluogo provinciale? Un rapporto più immediato con l’ambiente fisico e umano non dovrebbe essere di per sé vivifico e dunque economico?

Una seconda, subito dopo: “E’ sicuro il Consiglio dei Ministri che ne sta discutendo, di aver fatto bene i conti? Per esempio: ha provato a tararli dei costi delle esternalità negative? Anche quelle sono spesa pubblica, oltre che connesse alla qualità della vita“.

E’ vero che le esternalità sono difficili da quantificare; pure l’età contemporanea ci insegna che esse rappresentano, nel bene e nel male, la parte più economicamente rilevante delle attività umane, e che di fronte ad esse il beneficio del profitto e del salario sono solo derivanti secondarie.

Hanno considerato i decisori quanto verrebbe a costare il processo di concentrazione che perseguono in termini di intensificazione del traffico (da e per Ancona, tra incidentalità, emissioni, tempi di percorrenza e necessità di controllo); di appesantimento delle strutture centrali (già costrette nello spazio e nelle funzioni in una città già fortemente burocratizzata); di peggioramento del rapporto istituzioni-cittadino (con una maggiore astrattezza e spersonalizzazione); di marginalizzazione residua delle comunità locali (con un tessuto civile sempre più stramato e tendenzialmente marginale)?

Non sta a noi metterci al posto dei ragionieri che ci governano, ma abbiamo chiaro che i conti delle complessità non si fanno in cinque minuti e con un tratto solo.

Quanto costerebbe, e quanto già sta costando, la destrutturazione delle comunità locali e la loro riduzione a periferia eteronoma?

Solo un quarto della popolazione italiana vive in città che hanno più di 60.000 abitanti (Istat 2011): non si rendono conto i governanti che riducendo l’Italia dei comuni e dei paesi a propaggine delle loro monorotaie mentali privano non solo un’intera civiltà dei suoi valori, ma anche i tre quarti degli italiani del minimo necessario per essere comunità e vivere decorosamente?

Invece di atteggiarsi a Dei Ottimi Massimi della finanza nazionale, abbiano i nostri governanti l’umiltà di studiarsi la dimensione minima ottimale che rende ogni buona economia feconda nella terra che le dà casa e sostentamento.

La democrazia non è solo metafisica: è concretezza di luoghi e di persone.
Tanto più si rischia di sbagliare quando non se ne tiene conto.

di Leonardo Badioli

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